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Della Stupidità

1. In ognuno di noi c’è un fattore di stupidità che è sempre maggiore di ciò che pensiamo.
2. Quando la stupidità di una persona si combina con la stupidità di altre, l’effetto cresce in modo geometrico – cioè per moltiplicazione, non addizione, dei fattori individuali di stupidità.
3. La combinazione delle intelligenze di persone diverse ha un effetto minore della combinazione di stupidità, perché “le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide”.

tratto da focus di questo mese

Segnalo qualche aneddoto di Carl William Brown.

  • Il bandito Giuliano Mesina un giorno disse che sarebbe diventato completamente onesto quando la società sarebbe diventata realmente giusta.
  • Non è vero che Dio non esiste, esiste eccome! Soltanto che è un grande imbecille. In fondo l’ha creato proprio l’uomo, l’essere più stupido che si possa trovare negli infiniti spazi dell’universo!
  • Per Amleto c’era del marcio in Danimarca, per me c’è dell’Italia nel marcio.


risorse:http://www.daimon.org/cwb/associaz.htm

 

 

 

Un mucchietto di polvere livida

Bendicò

Seduto su un banco se ne stava inerte a contemplare le devastazioni che Bendicò operava nelle aiuole; ogni tanto il cane rivolgeva a lui gli occhi innocenti come per essere lodato del lavoro compiuto: 14 garofani spezzati, mezza siepe divelta, una canaletta ostruita. Sembrava davvero un cristiano.”Buono Bendicò, vieni qui”. E la bestia accorreva, gli posava le froge terrose sulla mano, ansiosa di mostrargli che la balorda interruzione del bel lavoro compiuto gli veniva perdonata.

 

Sicilia 1

   “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” – (Tancredi parlando dell’avvento della repubblica ndr)

 

Caccia

Poco prima di giungere in cima al colle, quella mattina Arguto e Teresina iniziarono la danza religiosa dei cani che hanno presentito la selvaggina: strisciamenti, irrigidimenti, caute alzate di zampe, latrati repressi. Dopo pochi minuti un culetto di peli bigi guizzò fra le erbe, due colpi quasi simultanei posero termine alla silenziosa attesa; Arguto depose ai piedi del Principe una bestiola agonizzante. Era un coniglio selvatico: la dimessa casacca color di creta non era bastata a salvarlo. Orrendi squarci gli avevano lacerato il muso e il petto. Don Fabrizio si vide fissato da due grandi occhi neri, che, invasi rapidamente da un velo glauco, lo guardavano senza rimprovero ma che erano carichi di un dolore attonito rivolto contro tutto l’ordinamento delle cose; le orecchie vellutate erano già fredde, le zampette vigorose si contraevano in ritmo, simbolo sopravvissuto di un’inutile fuga; l’animale moriva torturato da un’ansiosa speranza di salvezza, immaginando di poter ancora cavarsela quando di già era ghermito, proprio come tanti uomini;mentre i polpastrelli pietosi accarezzavano il musetto misero, la bestiola ebbe un ultimo fremito e morì; ma Don Fabrizio e Tumeo avevano avuto il loro passatempo ; il primo anzi aveva provato, in aggiunta al piacere di uccidere, anche quello rassicurante del compatire.

 

Sicilia 2

…Era entrato in gioco il machiavellismo incolto dei siciliani che tanto spesso induceva, in quei tempi, questa gente, generosa per definizione, ad erigere impalcature complesse fondate su fragilissime basi. Come dei clinici abilissimi nelle cure ma che si basassero su analisi del sangue e delle orine radicalmente erronee, e per far correggere le quali fossero troppo pigri, i Siciliani (di allora) finivano con l’uccidere l’ammalato, cioè loro stessi, proprio in seguito alla raffinatissima astuzia che non era quasi mai appoggiata a una reale conoscenza dei problemi o, per lo meno, degli interlocutori.

 

Sicilia 3

…si fece il segno della croce, segno di devozione che ha in Sicilia un significato non religioso più frequente di quanto si immagini.

 

Perla

(Parlando di Falconieri ndr) …buona parte di questo fascino scaturiva dalle buone maniere e (il Principe) si rese conto di quanto un uomo beneducato sia piacevole, perché elimina le manifestazioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione umana e che esercita una specie di profittevole altruismo (formula nella quale l’efficacia dell’aggettivo gli fece tollerare l’inutilità del sostantivo).

 

Dialogo tra Don Fabrizio e Chevalley (messo piemontese incaricato di insignire il titolo di Senatore della Repubblica al Principe).

“Ma allora Principe, perché non accettare?”

“Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò. Noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro.  Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai vicerè spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto “adesione”, non “partecipazione”. In questi 6 ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito che ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato anno fra noi. In Sicilia non importa fare male o fare bene: il peccato che noi Siciliano non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono 25 secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e prefezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il “la”; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da 2500 anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra, ma siamo stanchi e svuotati lo stesso”.

“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto tra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto”.

“Ma non le sembra di esagerare un po’, principe?Io stesso ho conosciuto dei Siciliani emigrati, Crispi, per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni”.

Il Principe si seccò: “Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto, avevo già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gli incontri stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora la via di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che ha a poche miglia di distanza l’inferno intorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che ci infligge 6 mesi di febbre a 40 gradi; li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte 30 giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo;

Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formatoli carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo”.

“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a svagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. “

Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace quello che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare….ascolti la sua coscienza, Principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori”.

“Lei è un gentiluomo, Chevalley, ed ha ragione in tutto; si è sbagliato solo quando ha detto – I Siciliani vorranno migliorare – . …(poi continua a proposito dei garibaldini) vengono per insegnarci le buone creanze, ma non lo potranno fare perché noi siamo dèi. I siciliani non vorranno mai  migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale?Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di Re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni Angioini, quanti legisti del cattolico hanno concepito la stessa bella follia. E quanti vicerè spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola? Qui da noi si va dicendo che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è del feudalesimo. Mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalesimo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità.”

 

Fine

(Siamo nei ricordi di Concetta, figlia del Principe, a diversi anni dalla morte di costui, evocati dalla figura imbalsamata e impagliata di Bendicò. Il clima è di malinconia e decadenza. Ndr)

 

Il vuoto interiore era completo; soltanto dal mucchietto di pelliccia esalava una nebbia di malessere. Questa era la pena di oggi: financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. “Annetta”disse”questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso. Portatelo via, buttatelo.”

Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.